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L’elogio dell’ abbondanza

L’elogio dell’abbondanza di Lucia Tota.
In un recente articolo sul tema delle “carni debordantí” nell’arte del secolo scorso, Giorgio di Genova si chiedeva che risposta darebbero mille persone interrogate sull’attività di Fernando Botero e Domenico Rambelli. “Molti risponderebbero che il primo è un pittore e scultore, mentre la quasi totalità per il secondo, scuotendo la testa, confesserebbe ‘non so’. E questo a dispetto del fatto che Rambelli può essere considerato a pieno titolo come “il nonno di Botero, il quale ebbe per padre Antonio Bueno, dal quale ha attinto direttamente, quando studiava a Firenze, per le sue donne obese e gonfiate”.

A giudicare dalla forme morbide e opulente delle sue sculture in terracotta, Lucia Tota potrebbe inserirsi in questa sorta di dinastia artistica come ultima rappresentante in linea di successione. Per lei, che iniziò a modellare la creta ancor prima di iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Napoli, dove segui i corsi di scultura di Alfio Castelli, la terracotta è il mezzo preferenziale con cui esprimere ad un tempo se stessa, i propri stati d’animo e il legame, strettissimo, con la tradizione ceramica, antica e recente, dei suoi luoghi di origine. Ed è proprio da questo legame, da questa sorta di duplice matrice, colta e popolaresca, che le sue opere possono situarsi in un originalissimo territorio di mezzo in cui la fresca esuberanza artigianale si combina senza frizioni con il tema principe della grande scultura: la statua. Policrome, le terrecotte della Tota sono distanti da ogni eccesso cromatico e da quel discutibile decorativismo da souvenir, gratuito e pacchiano, tanto apprezzato oltreoceano dagli estimatori del kitsch. Parimenti, come testimoniano i temi affrontati prima ancora delle dimensioni, in queste rubiconde figure, quasi a dispetto della loro stessa imponenza, non c’è traccia della ieratica monumentalità della statuaria tradizionale. Merito dell’ironia dell’artista che proprio attraverso il suo lavoro riesce a farsi beffe dei dettami estetici imposti alla società dalla “cultura” del peso forma e dell’alito fresco. Difficile non sorridere amabilmente di fronte a queste donne deformate dai piaceri del palato che non rinunciano a prodursi in improbabili passi di danza classica ostentando, tuttavia, un´insospettabile leggerezza.

Se poi, a una prima superficiale osservazione, vien fatto di comparare questi lavori con quelli del colombiano Fernando Botero, ci sì accorgerà ben presto che le differenze superano di gran lunga le analogie: lo dimostrano le posture, il conseguente trattamento delle masse, delle superfici, delle scelte cromatiche, ma anche e soprattutto la dimensione sociale in cui queste figure sono calate. In Botero c’è l’ostentazione di un’opulenza composta, tutta esteriore, da parata: le sue famiglie di obesi, gonfiate col mantice dell’ipocrisia borghese, si pongono frontalmente rispetto all’osservatore, ferme e impeccabilmente abbigliate con l’eleganza, tronfia e provinciale, del dì di festa.

Nulla di tutto ciò nelle terrecotte della Tota. Sospese sulle punte, sedute o scompostamente distese a terra, queste donne dalle forme debordanti, conservano sempre un ché di informale, quasi fossero sorprese da uno sguardo indiscreto. Di una solarità inequivocabilmente mediterranea, sono vestite succintamente senza curarsi, anzi compiacendosi, di mostrare quelle superfici adipose – già care a tanti maestri del passato, Rubens su tutti – su cui la luce, impietosamente, indugia evidenziando le cellulitiche discontinuità. Ad aggiungere a queste morbide creature un’ulteriore nota di simpatia concorrono infine gli sguardi vivaci, di un’espressività sanguigna che si accende con pochi tocchi di colore, memori delle soluzioni medio italiche ed etrusche, al limite del grottesco.

di Andrea Romoli, Critico d’Arte.